2017.02.24 – Dura lezione.

24 febbraio 2017 Quando squilla il telefono in genere in sede cala il silenzio, ognuno lascia quello che sta facendo, chi è seduto si alza ed inizia a prepararsi, chi è più vicino al telecomando spegne la tv e prima che termini la telefonata l’equipaggio è già pronto per partire. La chiamata dell’altra sera è stata un po’ diversa, noi lo chiamiamo servizio a seguire. Eravamo già in ambulanza quando è squillato il telefono, sollevati per aver terminato il servizio e proiettati al rientro in sede per guardare un po’ di tv, magari fare due chiacchiere e poi andare a dormire, ma la chiamata è arrivata appena fuori dal pronto soccorso di Borgo Trento.

Io dal retro dell’ambulanza chiedo al soccorritore accanto a me di guardare oltre il finestrino che ci separa dal vano guida, sul tablet che codice fosse, le chiedo è rosso? Con la testa annuisce. Terminata la chiamata, l’infermiere ci spiega l’accaduto, dal tono della voce e da quello che ci dice è subito chiaro che troveremo una situazione piuttosto delicata. L’autista imposta il navigatore, meno di 20 secondi e partiamo, la sirena fa da sottofondo ai mille pensieri che affollano la mia mente, cerco di ripassare tutte le procedure che mi hanno insegnato, inizio ad infilarmi i guanti e con lo sguardo focalizzo la posizione del materiale che l’infermiere nel frattempo ci sta dicendo di prendere. Io e l’altro soccorritore ci guardiamo, sono passati pochissimi minuti ma a noi sembrano interminabili, decidiamo chi prende cosa, ancora pochi istanti, e l’ambulanza si ferma, Zaino, Ossigeno, Aspiratore e DAE, ok abbiamo tutto. Il portellone si apre, ad accoglierci in strada una madre apparentemente abbastanza tranquilla, è chiaramente sollevata dal nostro arrivo, sono arrivati quegli angeli che salveranno suo figlio, ci dice “presto, fate presto”. È quello che facciamo, 2° piano, l’infermiere ci fa strada, i gradini li facciamo 2 alla volta, io continuo a ripassare le procedure come un mantra, la porta si apre, la madre ci indica di andare nella stanza che c’è in fondo a sinistra, la situazione purtroppo è subito chiara. Guardo il corpo di quel ragazzo di appena 26 anni, poi guardo l’infermiere, non ha bisogno di parlare, i suoi occhi dicono tutto. Non serviranno le procedute imparate, non servirà la volontà, ne la determinazione, ci troviamo davanti ad uno di quei casi, come ci hanno insegnato al corso, in cui il soccorritore è dispensato dall’effettuazione delle manovre di BLS, le lesioni riportate sono incompatibili con la vita. Ora non ci resta che aspettare la polizia e concentrarci sulla madre, cercando di darle il miglior supporto possibile, ma non è quello che vuole, con una mano mi spinge dalla spalla verso la stanza, continua a ripetere “presto, fate qualcosa,” non capisce perché non facciamo nulla, l’infermiere prova a spiegarglielo, ma è chiaro, che lei non è pronta per accettarlo. Razionalmente lo sapeva anche lei, non serviva un medico, o un infermiere o un semplice soccorritore, per capire che non c’era più niente da fare. Ma come fa una madre ad accettarlo? Come fa ad accettare che quelle persone, che quegli angeli che avrebbero dovuto salvare suo figlio, sono li e non fanno niente? Ci urla contro di fare il nostro lavoro, ci supplica di ridargli il suo unico figlio… è stato il servizio più straziante che abbia mai fatto. Forse avevo la presunzione di poter salvare chiunque, forse è il desiderio di ogni soccorritore, ma questo servizio mi ha dato una dura lezione: puoi imparare tutte le procedura del mondo, avere il miglior equipaggio, il miglior infermiere che ti segue e ti appoggia in ogni fase, ma ci saranno sempre delle situazioni in cui non ci sarà nulla che tu possa fare, e fa davvero male, prendere coscienza della propria impotenza. Jessika Cotadamo